Buon martedì, amici lettori!
Siamo arrivati alla 5° tappa di questo bellissimo viaggio!
E come sempre è pronto un nuovo estratto per voi!
Pronti?
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Secondo estratto!
Terzo estratto!
Quarto estratto!
E ora il quinto estratto, buona lettura!
«Sì, ecco, te ne avrei parlato.» Si impose di avvicinarsi di nuovo alla scrivania e mostrarsi tranquilla.
«Bene. Parlamene ora.» Il suo sguardo si allungò verso di lei come le lingue di fuoco che scorrono inarrestabili e impetuose sui fianchi dell’Etna. Si sentì piccola e insignificante come l’uomo di fronte alla maestosità del vulcano. Forse non si può combattere contro la furia degli elementi, ma neppure rassegnarsi a esserne travolti senza difendersi!
«Perdonami. Lo so, questo mese ho speso più del dovuto. È che vidi un vestito pochi giorni fa, in centro…»
«Allora non hai bisogno di un abito nuovo per domani.» Per la rabbia conficcò le unghie nel tessuto soffice della gonna. Non aveva pensato a una risposta del genere e la tranquillità che gli leggeva sul volto la irritava, se possibile, anche di più.
Doveva inventarsi qualcosa e alla svelta. Qualunque cosa prima che lui indovinasse la sua incertezza e la usasse a proprio vantaggio.
«Ma papà, comprai un vestito da giorno» disse tutto d’un fiato, senza neanche pensare.
Il mezzo sorriso ironico che comparve per qualche secondo agli angoli della bocca del conte fece realizzare a Livia di averla scampata ancora una volta.
«Tutte uguali voi fimmine. Sempre la scusa pronta avete.»
«Ti vogghiu beni, papà» si lasciò scappare in un momento di eccessiva sicurezza ed entusiasmo per essere riuscita a farla franca.
Il conte alzò lo sguardo di colpo e Livia si morse un labbro chiedendosi come potesse essere tanto stupida.
«Parli come una contadina. Non ti ci mandai a scuola?» la gelò.
«Non accadrà più. Scusa» arrossì. «Anche se…» Si bloccò, cercando di dominare l’impeto di ribellione tutto giovanile che sentiva montarle dentro. Sospirò, ma l’incoscienza ebbe la meglio, rompendo gli argini del buon senso. «In fondo tu stesso… ogni tanto, ti rivolgi a me in dialetto.» Il tono si addolcì. «Perché non vuoi che lo parli? Io sono nata qui, come te del resto.»
Il conte Altamura la fissò stupito e alterato. Odiava essere contraddetto, era una delle poche cose che potevano farlo infuriare davvero, rendendolo spietato e vendicativo. Pochissimi avevano osato tanto in privato, mai nessuno in pubblico. Eppure sua figlia rimaneva lì, dritta, il viso fiero e serio di chi sa di aver oltrepassato il limite, ma non vuole e non può più tirarsi indietro. Conosceva quell’espressione timida ma decisa, di cui Livia non era ancora del tutto consapevole. L’apparente fragilità che ogni volta minacciava di trascinarlo indietro nel tempo. Lottò, resistette alla marea che stava per travolgerlo, come un vecchio leone che non accetta di essere spodestato dal suo territorio ed ebbe la meglio, come sempre.
La ragazza chinò la testa, in segno di resa. Il leone le si avvicinò lentamente, infine spiccò il balzo decisivo. «Una figlia che cumanna1 ‘o patri? Una donna?» sibilò quando furono faccia a faccia.
«Ma io non intendevo…» Gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Vai, sfacciata!» Gridò puntando il dito verso la porta. «E fai in modo che io non ti riveda fino a domani mattina.»
Livia si voltò e uscì di corsa, con gli occhi annebbiati dal pianto. Si precipitò in camera sua, sbatté la porta e vi si appoggiò tremante e impotente. Nel silenzio scosso dai singhiozzi maledisse il giorno in cui era nata e perfino sua madre, che l’aveva lasciata sola con un uomo che non l’amava e faceva di tutto per dimostrarglielo. Pregò Dio affinché la facesse scomparire o le desse la forza di fuggire da lì. E il Signore, o chi per Lui, in qualche modo l’ascoltò.
Il vestito di seta nero scivolò sulla sua pelle, modellando con grazia il corpo slanciato e perfetto. Si osservò nello specchio con un misto di timore e audacia. Suo padre non avrebbe mai approvato un vestito del genere, così aderente e scollato. Livia lo aveva comprato d’istinto, senza riflettere sulle conseguenze, solo perché le piaceva. La possibilità di rinunciarvi, scegliendo qualcosa di più adeguato secondo l’opinione paterna, non l’aveva neppure sfiorata e anche in quel momento, davanti al proprio riflesso, non riusciva a vedervi nulla di ostentato o, peggio, volgare.
«Contessì, muovetevi». La testa tonda di Teresa fece capolino all’improvviso dalla porta, senza bussare. «Gli ospiti a voi aspettano.»
«Sono pronta» rispose Livia fissando un’ultima volta la propria immagine.
«Contessì, ce la posso dire ‘na cosa?» Teresa gettò un’occhiata preoccupata al vestito.
«Dimmi» si voltò Livia, immaginando già dove la domestica volesse andare a parare.
«Questo abito…» la mano rugosa puntò sconsolata la seta nera.
«Andiamo, è tardi» tagliò corto Livia, senza alcuna voglia di mettersi a discutere con l’unica persona che le volesse davvero bene.
«Ma, il signor conte…»
«Non ti preoccupare.» Le mise le mani sulle spalle, per rassicurarla. «Mi prendo io la responsabilità.»
«Madonna!» esclamò Teresa facendosi il segno della croce.
«E poi, ormai, non c’è tempo per cambiare vestito» concluse la giovane non più così sicura della propria scelta.
Teresa la seguì continuando a segnarsi e ad alzare gli occhi al cielo.
Le voci degli ospiti riempivano il salone, volteggiando leggere e spensierate fino al pianerottolo su cui si trovava Livia. Iniziò a scendere le scale lentamente, pentendosi a ogni gradino di aver indossato quell’abito. Il mento si sollevò fiero, in uno scatto di volontà e sicurezza solo apparente, mentre il cuore batteva con la frenesia di chi vorrebbe darsi alla fuga. Non appena incrociò lo sguardo furibondo di suo padre, colmo di rabbia a stento trattenuta, vacillò ed ebbe l’irresistibile voglia di raccomandare l’anima a Dio, sentendo già nelle orecchie le grida che, presto o tardi, l’avrebbero travolta. Il coraggio le veniva meno a ogni passo, mentre gli ospiti ammiravano la sua raffinata bellezza annuendo e scambiandosi commenti bisbigliati. Gli occhi cercarono volti amici, per rompere il filo di tensione che la legava al conte Altamura, ma non ne trovò.
Suo padre le venne incontro sforzandosi di sorridere mentre la inceneriva con occhi incandescenti d’ira e gelosia. «Ecco il diamante della mia famiglia, l’ultima discendente degli Altamura» disse alzando la voce man mano che parlava. Le prese la mano e la baciò con dolcezza, ma nelle sue pupille fiammeggianti Livia lesse che la resa dei conti era solo rimandata. La prese sottobraccio e la condusse in mezzo agli ospiti, ch’ella salutò sorridendo e facendo finta di ignorare la tensione crescente tra lei e suo padre. «Ma che ti sei messa addosso?» le sussurrò sottovoce, furioso. «Un minimo di vergogna non ce l’hai?»
Livia continuò a sorridere e a salutare come se niente fosse, ma la sua mano cominciò a tremare leggermente. Il conte se ne accorse e gliela serrò nella sua, accennando un sorrisetto complice. «Non sei forte abbastanza per sfidarmi. E mai lo sarai.»
Dall’altra parte del salone Livia scorse Rocco, Andrea e Marianna che la salutavano e la chiamavano allegri. Si divincolò dalla stretta, felice e sollevata di ritrovare facce amiche.
«Vai, vai» le disse suo padre con una punta di velata ironia che solo lei poteva decifrare, dopo una vita passata insieme. «Che in fondo, con la gente del popolo mi ci diverto pure io.»
Livia si voltò verso di lui con gli occhi scintillanti di collera, ma riuscì a reprimerla in tempo, prima che esplodesse davanti a tutta la Palermo che contava.
Il conte levò il calice verso la figlia e bevve un altro sorso di champagne, sprezzante più che mai, come se il mondo intorno non esistesse se non per compiacere la sua indole violenta e arrogante.
La ragazza gli voltò le spalle e raggiunse i suoi amici, abbracciandoli come se non li vedesse da anni.
«Allora, cara, come stai? Ti sei rimessa dallo svenimento?» chiese Marianna ancora un po’ preoccupata.
«Certo, sto bene, tranquilla» le sussurrò appoggiandole una mano sul guanto di velluto nero che le fasciava quasi tutto l’avambraccio.
«Proprio non ricordi cosa è accaduto?» Sembrava che quell’avvenimento avesse scosso più lei che Livia e nulla potesse convincerla che era stato solo un capogiro.
«No, Marianna, mi spiace. Non ricordo niente, solo immagini confuse. Forse è meglio così» rispose sconsolata.
«Perché, Livia? Perché parli in questo modo? Qualcosa non va, tesoro?»
Come raccontarle il difficile rapporto con suo padre? Come rivelarle che quella sera, al castello, il suo volto arcigno l’aveva perseguitata per tutto il tempo? Marianna non avrebbe capito. Il suo matrimonio era perfetto, la sua famiglia anche e non aveva mai nemmeno sospettato che le cose, per Livia, non fossero altrettanto facili. Secondo la sua amica, infatti, il conte era sì un po’ rigido e severo, impossibile negarlo, ma non malvagio e ogni sua azione era dettata dal grande amore che nutriva per la figlia, che aveva dovuto crescere da solo.
Andrea si accorse dell’inopportuna insistenza della moglie e intervenne per salvare Livia dalla sua spirale d’affetto disinteressato ma opprimente.
«Basta pensare a quella sera. Sapete che vi dico? Domenica facciamo una gita al mare» propose con il suo entusiasmo contagioso.
Rocco aggrottò le sopracciglia. «Ma è freddo! Pensa a un’altra babbiata2, va» disse tirandogli una gomitata che lui schivò ridendo.
«Vado a salutare tuo padre, Livia… Sperando non mi rinfacci di nuovo che sono un borghesuccio arricchito.»
«Rassegnati, Andrè. Adora dirtelo» scherzò Livia, benché odiasse assistere alle squallide scene in cui il conte prendeva in giro i suoi amici e loro, per rispetto, tacevano e incassavano i colpi con un sorriso di circostanza.
«Lascialo stare» rise Marianna. «La realtà è che lo scopo della sua vita è parlare di politica con tuo padre. In effetti il conte è uno dei più grandi esperti in materia» soggiunse ammirata.
«Si è occupato di politica per tutta la vita. Probabilmente ha amato più quella che mia madre» disse con la voce velata di tristezza.
«Non essere assurda, cara! Ma come ti vengono certe idee? E poi tuo padre è così… affascinante» affermò guardando sognante verso di lui.
Livia si voltò verso l’amica, sorpresa, i grandi occhi neri spalancati. «Non mi dirai che ti piace mio padre!»
Rocco squadrò entrambe attonito, con il bicchiere immobile nella mano. «Ma che tenete oggi che babbiate tutti?»
Marianna alzò gli occhi al cielo, sbuffando. «Ma che avete capito? Trovo il conte Altamura un uomo colto e affascinante, tutto qui. Un esempio illustre per la nostra amata terra» spiegò tutto d’un fiato. «E credo che tu, cara, sia molto fortunata ad averlo come padre.»
«Ah, mo’ sì che è tutto chiaro» rispose sarcastico Rocco.
«Non è tutto oro quel che luccica, Marianna mia» sussurrò Livia, definitivamente convinta che l’amica non avrebbe mai potuto raccogliere le sue confidenze riguardo al conte.
D’altra parte, Enrico Altamura faceva quell’effetto alle donne; le ammaliava con il suo carattere introverso, schivo ed egocentrico, le avvinceva con i suoi bei discorsi sui valori, la politica o la letteratura; incatenandole, infine, con occhi roventi di passione per la vita e il potere. Per la Sicilia intera il conte era un uomo intransigente ma giusto, uno dei campioni della politica moderna nell’isola dopo la guerra, un uomo perfetto e irreprensibile, contro il quale nessuno avrebbe osato scagliare la prima pietra.
Un brusio proveniente dalla porta d’ingresso spinse i tre ragazzi ad allungare il collo per vedere meglio, incuriositi.
«Buonasera, buonasera a tutti!» Una voce giovane e allegra, espressione di un animo superbo e sicuro di sé, attraversò il salone, giungendo alle orecchie di Livia. Cercò tra la folla, ma non riuscì a dare un volto a quel timbro che, stranamente, avvertiva familiare.
A un tratto la calca di abiti lunghi, strascichi, scarpe lucide e gioielli si aprì in due ali bianche e nere che accompagnavano, sospingendolo, un giovane alto, dalla corporatura robusta e gli occhi accesi dall’ambizione.
Livia lo fissò cercando di capire chi fosse, ma Marianna la precedette.
«Ma quello… quello non è il barone Carlo Orsini? Livia te lo ricordi?»
«Chi è?» chiese Rocco, spostandosi verso Marianna.
«Ma sì! È proprio Carlo!» rispose Livia portandosi una mano sulla bocca. «Non l’avevo riconosciuto.»
«Direi che è cambiato, mia cara. Sono passati molti anni da…»
Livia terminò la frase sorridendo. «…Quando diceva a tutti di essere il mio promesso sposo. Oh, Marianna dai, eravamo bambini.»
«Livietta?» La voce da soprano di Marianna la prese in giro con un morbido falsetto. «Guarda meglio… È cresciuto e anche bene, direi» e scoppiò a ridere facendo arrossire Livia.
«Ma cu è chistu3?» si intromise di nuovo Rocco, geloso di quella nuova e sconosciuta presenza che aveva catturato l’attenzione della sua migliore amica.
«Oh nessuno, caro Rocco» rispose Marianna con un gesto noncurante della mano. «Solo l’unico figlio del ricchissimo e potente don Cesare Orsini, nobile, imprenditore e stella di prima grandezza della politica siciliana. Se non sbaglio suo figlio si è appena laureato in medicina.»
«Medicina?» ripeté Livia di colpo ancora più interessata.
«Embè? Pure io studio medicina» interloquì Rocco aggrottando le sopracciglia.
«Ma non sei ancora laureato» rimbeccò Marianna senza distogliere lo sguardo da Carlo.
«Calma» disse sottolineando il concetto con il palmo della mano aperto e sollevato. «Picciotto sono. Lui no.»
«Ma, Livia? Lo hai invitato tu?»
«Veramente degli inviti si è occupato papà» dichiarò, indicandolo con un cenno della testa.
I tre seguirono con gli occhi Carlo, mentre stringeva mani, prendeva una coppa di champagne e salutava il padrone di casa mantenendo un portamento orgoglioso e impeccabile. A Livia non sfuggì l’atteggiamento complice tra lui e suo padre, ma non diede troppo peso alla cosa, pensando che fosse una cortese intesa di circostanza tra uomini potenti.
«Oddio Livia, sta venendo qui!» disse sottovoce Marianna, tutta eccitata.
La ragazza si voltò e vide il conte e Carlo che le si avvicinavano sorridendo.
«Livia mia, ti ricordi di Carlo Orsini?» Nella voce ferma di Enrico Altamura non vi era traccia dell’arroganza mostrata poco prima alla figlia.
1“Cumannare”, ossia “comandare” in dialetto siciliano.
2La “babbiata”, in dialetto siciliano, è una presa in giro, una stupidaggine.
3“Chistu”, ossia “questo” in siciliano.
Vi raccomando, martedì prossimo non mancate alla 6° e ultima tappa, con il 6° e ultimo estratto! Approfittate per lasciarci le vostre domande da porre all’autrice in un’intervista!
The Bibliophile Girl
Un pensiero riguardo “Viaggio nella Palermo del 1950. Protagoniste: Livia e Laura – 5° tappa”