Buongiorno, lettori!
Eccoci alla quarta tappa del viaggio di Livia e Laura.
Ormai sapete tutti come funziona!
Leggete gli estratti e sotto ognuno potrete lasciare una domanda per l’autrice!
Ora basta chiacchierare, vi lascio leggere l’estratto di oggi!
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Secondo estratto!
Terzo estratto!
E ora il quarto estratto, buona lettura!
Andrea trasse l’accendino d’oro dal taschino e le accese, poi le distribuì agli altri. «Signori e signore» esordì da attore consumato. «Ho il piacere di ospitarvi nell’antica dimora della Baronessa Laura Lanza di Trabia.» Con un ampio gesto della mano abbracciò l’enorme salone illuminato solo dalle candele.
Un fischio acuto trapassò il nobile silenzio del luogo, facendoli sobbalzare.
«Rocco!» sussurrò Marianna indignata.
«E scusa! Ammirazione fu.» Le occhiatacce degli altri lo costrinsero a tacere.
La quiete tornò ad aleggiare impalpabile sul salone spoglio, mentre il gruppo si metteva in marcia verso la stanza della Baronessa. Livia si limitò a seguire gli altri senza badare a ciò che aveva intorno, ma solo a dove metteva i piedi. Lanciò una rapida occhiata alla gru incisa sullo stemma dei La Grua, che sormontava uno dei portali del pianterreno.
Andrea, intanto, cercava di illuminare quel che, a suo dire, era un vero capolavoro di araldica.
«Signori, rimirate i leoni rampanti dei Lanza!» disse entusiasta. «Una vera famiglia sicula.»
«Infatti quella gru è ‘na fitinzìa1. Meglio i leoni» ribatté spavaldo Rocco.
Mormorii di scherzosa disapprovazione attraversarono il gruppo, mentre il giovane, soddisfatto per avere espresso il proprio parere, porgeva il braccio a Livia per aiutarla. Come per magia, il senso di soffocamento causato dal buio fitto allentò la stretta sulla sua gola e scivolò via. Le accadeva sempre così quando era costretta a stare nell’oscurità e lui lo sapeva; le si mozzava il respiro, avvertiva un peso sul petto e la gola le si serrava permettendole a malapena di emettere un suono. Per questa ragione, fin da piccola, aveva sempre evitato gli spazi angusti e male illuminati. Da molti anni, ormai, rifiutava perfino di dormire al buio, così Teresa le lasciava le imposte semiaperte, in modo che la luce della Luna o quella della strada potessero filtrare. Suo padre non sapeva di questo piccolo escamotage e di certo non lo avrebbe approvato poiché, secondo lui, non di claustrofobia si trattava, come invece sosteneva il medico di famiglia, bensì di un semplice capriccio che bisognava eliminare con metodi più drastici.
La luce fioca della candela illuminò il bel profilo di Rocco. Per pochi istanti Livia si perse tra i suoi riccioli neri, riflettendo su quanto fosse incredibile e meraviglioso il potere di un gesto amico, tanto da alleviare ogni sofferenza, sciogliere qualunque pena o, più semplicemente, far passare piccole fobie a cui nessuno badava.
«Adesso ci recheremo nell’ala ovest» disse Andrea ad alta voce, come se dovesse farsi ascoltare da un pubblico di decine di persone. «È lì che si trovava la stanza della Barunissa» soggiunse a bassa voce, colorando le sue parole con la giusta dose di mistero, come se volesse rendere gli amici complici di un inenarrabile segreto.
Camminarono sotto le volte a crociera, calpestarono pavimenti che erano stati testimoni silenziosi della Storia, finché giunsero nella parte sud-ovest del castello, proprio sotto l’architrave di marmo immacolato.
«Amici, questo non dovete assolutamente perderlo!» La mimica eccitata e convinta con cui il moderno cicerone illustrava le peculiarità del luogo, lo faceva quasi assomigliare a un venditore ambulante che mette in mostra la mercanzia con doti da attore esperto.
«Guardate in alto! La trabeazione!» I volti si sollevarono contemporaneamente, gli occhi si strinsero per distinguere meglio la grande scritta.
«“Et nova sint omnia”» lesse d’un fiato Rocco.
«E tutto sia nuovo» proseguì Andrea con solennità.
«Che vuol dire?» Marianna si sollevò sulle punte per vedere meglio.
«’O baruni La Grua ce lo fece scrivere.»
«Dopo aver ucciso la moglie e sposato un’altra donna, Ninfa Ruiz» concluse Andrea.
«Voleva lavarsi la coscienza, cancellare la macchia dell’offesa, no Andrea?» disse Marianna indignata.
«Proprio così.» Il giovane portò la candela più vicina al viso. «E più in là, proprio sulla porta d’uscita della stanza di Laura, potete vedere la frase complementare. “Recedant Vetera”.»
«Sia cancellato il passato» intervenne Rocco lasciando tutti stupiti.
«Non dirmi che sai il latino! Tu?» domandò Marianna spalancando gli occhi.
«Abbiamo davanti a noi un uomo dalle mille risorse, non è vero, Rocco?» lo difese l’amico fraterno.
All’espressione sbruffona del ragazzo Marianna non seppe opporre altro che una vigorosa scrollata di riccioli biondi.
Il custode, visibilmente spazientito, sfiorò con un mano il braccio di Andrea. «Eh, voscenza, il padrone del castello…»
«Lo so, lo so tranquillo» ribatté con aria di sufficienza. «Facciamo un rapido giro. Poi, per finire, voglio mostrarvi la scultura di una mano» disse facendo l’occhiolino ai suoi attenti ascoltatori.
Si avviarono tutti insieme, mentre il giovane spiegava che, con tutta probabilità, la scultura che stavano per vedere era un residuo della dominazione araba sull’isola e nulla aveva a che fare con la tragedia consumatasi tra quelle mura.
«…La Mano di Fatima, un antico e potente amuleto arabo.»
Il volto di suo padre continuava a comparirle davanti, nonostante Livia tentasse di concentrarsi sulla voce di Andrea. Era in ansia e non vedeva l’ora di tornare a casa. Senza rendersene conto lasciò il braccio di Rocco per fermarsi davanti a uno specchio ovale, appoggiato al muro. Sembrava nuovo e doveva essere stato messo lì di recente. Non vi era nulla che lo rendesse degno di attenzione; un oggetto anonimo, senza alcun ornamento, ma la ragazza si avvicinò, come catturata da una forza magnetica.
«Dite che la baronessa apparirà? Oggi è l’anniversario della sua morte. Sarebbe così emozionante!» La voce impostata e cristallina di Marianna le arrivò da molto lontano, per poi perdersi tra le volte del castello.
«O sarà la sua mano insanguinata a volteggiare su di noi» disse Andrea e tutti risero.
Livia avvicinò la candela allo specchio e lo fissò, imprigionata dalla forza magnetica che l’aveva catturata. Non era la propria immagine ad attirarla ma qualcosa che andava oltre questa. Gli occhi… erano i suoi o quelli di un’altra? Per un secondo non si riconobbe ma, stranamente, ciò non la spaventò affatto.
«Livia?!» sentì chiamare da un luogo remoto, ma la malia di cui era vittima la costrinse a restare inchiodata al suo posto.
La bocca sembrava sussurrare qualcosa, eppure lei non stava parlando.
«Livia, dove sei?» Il tono di Marianna era preoccupato, ma lei rimase tranquilla, come se questo non la toccasse affatto.
Il riflesso nello specchio l’aveva ipnotizzata; scorse dei capelli ondulati ma più chiari e fini dei suoi. Si avvicinò ancora e l’immagine fece lo stesso. A tratti riconosceva se stessa, ma subito dopo, davanti a sé, prendeva forma un’altra donna.
«Livietta!!!» gridò Rocco con il suo solito tono canzonatorio.
Voleva volgersi verso le voci, ma non ci riusciva, quasi quella specie di ombra la tenesse avvinta a sé con catene invisibili.
«È un’illusione» disse tra sé, tentando di scacciare l’angoscia che le stava montando dentro. «Lei è un’illusione» ripeté per convincersi. «Lei… o io?»
Quel pensiero tanto rapido quanto inaspettato la fece vacillare all’indietro. Si portò una mano verso la bocca e il riflesso eseguì lo stesso movimento mostrando dita avvolte da copiose spirali di sangue.
Livia gridò, ancora e ancora. La candela cadde in terra e si spense, scacciando via anche il riflesso. Guardò la sua mano immacolata, ma il terrore non la lasciò. Gli amici la circondarono, cercando di calmarla.
«Che è successo?» chiese Andrea sconvolto.
«Livia? Livia, guardami.» Marianna era impaurita, poiché l’amica continuava a piangere e a fissare il vuoto.
«Livia? Livia!» Rocco la scrollò facendo attenzione a non farle male.
La ragazza lo guardò per un attimo, poi si accasciò tra le sue braccia.
Rocco la sollevò come fosse fatta d’aria e tutto il gruppo ritornò verso la macchina, accompagnato dai lamenti incomprensibili del custode. Andrea gli diede altri soldi e quello tacque come per incanto.
«Portiamola dal dottore, ti prego, sta male!» si agitò Marianna aggrappandosi al braccio del marito.
«Ne conosco uno che abita poco lontano. Anche se credo sia stata colpa della suggestione.»
«Oh, ma che ne sai!» si indispettì lei. «Non possiamo riportarla a casa così.»
L’unico a non parlare fu Rocco, che continuava a fissare il volto pallido della sua migliore amica.
Andrea stava per mettere in moto, quando flebili gemiti fecero voltare tutti verso Livia.
«Grazie a Dio, si sta riprendendo.» Le mani di Marianna tremavano vistosamente.
«Che… che è successo? Perché sono qui?» sussurrò, raddrizzandosi un po’.
«Ah, noi te lo dobbiamo dire?» Rocco fece finta di spazientirsi. «Ci facesti scantare2 a tutti quanti.»
«Cara, rammenti perché sei svenuta?» intervenne con più tatto l’amica.
«Svenuta? Io non ricordo… Non so, sono confusa.» La sua voce si udiva appena.
«Ora, ti portiamo dal dottore, stai tranquilla.» Andrea mise in moto l’auto.
«No, no, niente dottore» rispose quella, mettendosi a sedere di botto. «Sto bene. Portami a casa, per favore.»
«Sicura, cara?» Marianna la scrutò certa che, invece, ne avesse un gran bisogno.
Livia annuì, poi, concentrando lo sguardo su un punto imprecisato davanti a sé, iniziò a parlare lentamente, come se stesse cercando di raccogliere le idee. «Non ricordo bene. Ecco, io… Mi sono fermata davanti a uno specchio e…»
«E…?» risposero gli altri all’unisono.
«Non lo so… C’era sangue, questo sì. Una mano…»
«Mano? Che mano?» la interruppe Rocco.
«Dov’era il sangue?» proseguì Andrea.
«Ma non c’era sangue da nessuna parte, tesoro.» Marianna scosse la testa per dare più forza all’affermazione.
Tutte quelle voci che la bombardavano da ogni parte non fecero che confonderle ancora di più le idee. Tacque, strinse le palpebre e si portò le dita alle tempie, decisa ad afferrare ricordi che, forse, erano solo frutto della sua immaginazione.
«Non ci riesco. Sento i ricordi molto vicini, ma mi sfuggono. Non so spiegarlo. È come se avessi rotto un vaso, mi capite? E non riuscissi a trovare tutti i pezzi, anche se mi affanno a cercarli. Rimangono dei buchi neri. E sono tanto stanca.» Si lasciò andare contro lo schienale e Andrea si portò un dito alle labbra, facendo cenno agli altri di non disturbarla.
Proseguirono il viaggio in silenzio, mentre Livia si addormentava e i suoi ricordi, appena celati dietro la consapevolezza, sprofondavano nelle sabbie mobili dell’inconscio, decisi a non riaffiorare mai più.
Era da poco passata la mezzanotte quando arrivarono di fronte al palazzo degli Altamura. I due ragazzi accompagnarono Livia fino al cancello posteriore che, con loro grande sorpresa, era stato dimenticato aperto. Si salutarono in fretta, mentre il freddo della notte diventava ancora più pungente e il cielo si caricava di nuvole man mano che i minuti passavano. Attesero che Livia si arrampicasse sull’albero e, non appena la videro chiudere le imposte, ripartirono facendo slittare l’auto sull’asfalto umido.
Camminò per la camera in punta di piedi, ansiosa di trovare l’interruttore dell’abat-jour. Una fioca luce rosata rischiarò il buio della stanza e Livia tirò un sospiro di sollievo. La casa dormiva, nessuna l’aveva vista entrare o uscire, eppure il pensiero che qualcuno potesse udirla perfino respirare non se ne andò, facendola tremare d’agitazione. Si infilò il pigiama attenta a ogni minimo rumore che provenisse dall’esterno, infine sgusciò tra le coperte, esausta.
L’adrenalina, però, non voleva saperne di scendere e il ricordo della serata non faceva che tormentarla, costringendola a rigirarsi senza tregua nel letto. Una parte di lei avrebbe voluto dormire, ma l’altra le metteva davanti, senza pietà, immagini confuse e sovrapposte dello specchio, della mano e dei suoi amici prima contenti poi spaventati. Su tutti, ancora una volta, fu il volto di suo padre, duro e accigliato come sempre, a perseguitarla finché non scivolò in un sonno profondo e senza sogni.
Livia si svegliò di soprassalto prima dell’orario in cui Teresa veniva, di solito, a chiamarla. Si vestì in fretta e scese con il cuore che batteva rimbombandole fin nelle orecchie. Parlare con suo padre la metteva sempre in uno stato oscillante tra l’angoscia e l’impazienza che tutto finisse alla svelta. Quel giorno le sensazioni erano, se possibile, anche più intense, quasi dolorose. Dipendeva dalle bugie e dai sotterfugi che agitavano la sua coscienza, ma era stata costretta a inventarsi, pur di inseguire quei sogni che esigevano attenzione e protezione e a cui, nonostante gli sforzi, non era riuscita a sottrarsi.
Giunse di fronte alla porta dello studio di suo padre col fiato corto, benché non si fosse certo affrettata a onorare l’appuntamento.
“Stai calma, stai calma, stai calma” si ripeté, imponendosi di respirare regolarmente.
Bussò piano ed entrò con passo leggero, quasi sperasse di non essere udita.
Don Enrico era in piedi di fronte alla finestra, gli occhi socchiusi che sorvegliavano i giardinieri al lavoro nel suo parco. Si voltò di scatto e scrutò la figlia dall’alto al basso. Livia si sentì nuda e indifesa di fronte a quegli occhi che possedevano i bagliori del lampo e il vigore del tuono, così abbassò la testa deglutendo vistosamente.
«Siedi» le disse asciutto, indicandole la poltrona vicino alla finestra.
«Cosa guardavi?» chiese Livia sforzandosi di apparire allegra e, soprattutto, innocente.
«Le rose.» Si voltò di nuovo e si accese una sigaretta.
«Quelle che piantò mamma?» Un crampo improvviso le afferrò lo stomaco, ma era troppo tardi per tornare indietro. Senza volere, le era sfuggito l’unico nome che il conte non tollerava venisse pronunciato in sua presenza.
Un cupo silenzio avvolse lo studio, interrotto solo dal battito rapido del cuore di Livia.
Seguì con lo sguardo suo padre mentre tornava verso la scrivania e si sedeva facendo finta di nulla. Avrebbe voluto dire qualcosa, scusarsi per aver aperto la porta proibita che celava un dolore ancora tanto intenso. Se solo non fosse stato così difficile dialogare con Enrico Altamura, lo avrebbe abbracciato, stringendolo forte come solo nei sogni aveva osato fare e gli avrebbe confidato il bisogno quasi fisico di sentirlo parlare di sua madre. Era l’unico che l’avesse conosciuta davvero e potesse donare alla figlia l’illusione di sentirla ancora vicina, toccarla e respirare il suo profumo.
Come sempre, però, l’onda di parole troppo a lungo soffocate si infranse sul muro dei sensi di colpa, così riuscì solo a sussurrare. «Cosa volermi dirmi, papà?»
«Domani daremo una festa.» Un accento di irritazione ne incrinò la sua voce dura.
«Una festa?!» Non le parve vero di rivedere i saloni del palazzo illuminati a festa e pieni di gente dopo tanto tempo. Gli corse incontro e saltò sul bordo della scrivania con un’espressione felice e sognante. Lui non ricambiò l’entusiasmo, ma Livia decise di non farci caso, almeno per quella volta.
«Grazie! Non vedo l’ora! Non diamo feste da…» si fermò appena in tempo, sull’orlo del precipizio.
«Stavolta dobbiamo» tagliò corto il conte. «Il nostro casato compie cinquecento anni e il buon nome della famiglia viene prima di tutto» disse stringendo il pugno.
«Potrò invitare i miei amici? Ti prego!» Il pensiero di una ricorrenza tanto solenne passò in secondo piano di fronte alla possibilità di potersi divertire per una sera.
«Fai pure. Devi essere orgogliosa di portare il nome degli Altamura.»
«Lo sono» rispose sfiorandogli il dorso della mano.
«Non può essere altrimenti» le gettò un’occhiata carica di fierezza che Livia non riuscì a sostenere. Scese dal tavolo e cercò una scusa per andarsene e sottrarsi, finalmente, all’ansia che le procurava la vicinanza di suo padre.
«Quindi devo comprarmi un bel vestito!» Inclinò la testa da un lato, assumendo un’aria fanciullesca e capricciosa. «Poi passi tu a pagare.»
«Come sempre» concluse Enrico freddo, accendendosi un’altra sigaretta.
«Bene, io vado allora.» Sorrise e raggiunse la porta a grandi passi. Proprio mentre stava per agguantare la maniglia, la voce di pietra di suo padre la fece sobbalzare.
«A proposito.»
“Ecco” pensò Livia. “Lo ha scoperto. Madonna mia aiutami.”
«Sì, papà?» Si voltò fingendo un’espressione svanita.
«Notai un grosso ammanco nella cassaforte. Ne sai niente?» Livia colse il sarcasmo nelle sue parole, ma si sforzò di non apparire nervosa. Forse non aveva ancora scoperto nulla, oppure, e quella era l’ipotesi che la terrorizzava di più, stava giocando al gatto col topo.
1Il termine “fetenzia” in dialetto siciliano si riferisce a qualcosa di sudicio e, per estensione, di scarso valore.
2“Scantare”, cioè “spaventare” in dialetto siciliano.
A martedì prossimo con la 5° tappa e relativo estratto!
Al via le domande! 🙂
The Bibliophile Girl
2 pensieri riguardo “Viaggio nella Palermo del 1950. Protagoniste: Livia e Laura – 4° tappa”