Buon martedì, lettori!
Siamo giunti alla terza tappa di questo viaggio!
Ve lo spiego brevemente.
Sei “fermate”, dislocate un giorno a settimana, per un totale di sei settimane; in ognuna avrete la possibilità di leggere un estratto del primo capitolo. Qui, voi, potrete lasciare i vostri commenti e una domanda rivolta all’Autrice. Qualsiasi curiosità – sui personaggi, sulla storia, sulla scrittrice – sarà ben accetta. Al termine del Tour, verrà pubblicata un’intervista con tutte le risposte alle vostre domande. Gli articoli saranno presenti sul Blog “The Bibliophile Girl” e l’intervista verrà pubblicata su “Writing with Genesis Publishing.“!
Per sapere come partecipare e soprattutto per leggere il primo estratto, cliccate qui!
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Il terzo estratto.
Buona lettura!
La stretta sul polso si allentò e la giovane salì in camera con gli occhi dell’uomo puntati addosso. Non aveva neppure ricambiato la sua buonanotte.
Mentre si infilava il cappotto, pronta a uscire di soppiatto dalla finestra, le parole del conte continuarono a girarle in testa. Cosa aveva di tanto urgente da dirle? Perché darle addirittura un appuntamento nel suo studio, lontano da occhi e orecchie indiscreti? Per un attimo fu quasi certa che avesse scoperto il suo piano per quella sera. E se invece avesse trovato i libri di medicina? Magari era stata proprio Teresa a portarglieli. No, non poteva essere. Impossibile. L’avrebbe fermata, avrebbe urlato fino a svegliare tutto il vicinato. Di certo non sarebbe stato così tranquillo.
“No, non è da lui” si disse e si rasserenò.
Al segnale convenuto, il fischio acuto di Rocco, si avventurò tra i rami possenti dell’albero. Non aveva chiuso la porta a chiave, avrebbe destato troppi sospetti, ma si era premurata di riempire il letto con un fagotto di vestiti, un sistema vecchissimo ma sempre, o quasi, d’effetto. Di solito nessuno veniva a controllarla mentre dormiva, almeno per quanto ne poteva sapere.
Arrampicarsi sugli alberi era un suo passatempo sin da bambina. Le luci nel giardino, tutt’intorno alla casa, l’aiutarono a mettere i piedi e le mani nei punti giusti. L’adrenalina non le fece sentire il freddo pungente e in poco tempo atterrò sull’erba bagnata, senza fare rumore. Si rimise le scarpe che aveva nascosto nella borsa e corse verso il cancello posteriore, ancora aperto a quell’ora. Al ritorno avrebbe dovuto scavalcarlo, ma poco male; ci sarebbero stati Andrea e Rocco ad aiutarla.
I suoi amici erano dall’altra parte della strada, accanto all’auto di Andrea, parcheggiata lontano dalla casa degli Altamura, per non dare nell’occhio. Quando videro arrivare Livia, sorrisero salutandola a bassa voce.
«Eccoti!» esclamò Marianna, battendo le piccole mani delicate, tutta contenta.
«Finalmente. Stavo congelando» intervenne Andrea, saltellando da un piede all’altro per cercare di riscaldarsi.
«Scusate il ritardo» rispose Livia dispiaciuta. «Ma mio padre non sa nulla. Ho dovuto fingere di avere sonno pur di interrompere quell’interminabile cena!»
«Cara, non ti preoccupare» la voce impostata, da soprano, di Marianna la consolò. «Rocco ci ha raccontato tutto. E io mi son detta che dovevamo aspettarti. O no, Andrea?» Le due ragazze si abbracciarono mentre Andrea annuiva strofinandosi le mani nel vano tentativo di scaldarle.
La grazia, la gentilezza e la delicatezza della sua amica avevano il potere di rasserenare Livia in qualunque circostanza, perfino dopo gli aspri rimproveri del conte. Era molto materna con lei, pur essendo sua coetanea, e la loro amicizia non aveva mai subito scossoni né attraversato fasi di incomprensione. Marianna, poi, aveva il vezzo di terminare gran parte delle sue frasi chiedendo il parere del marito, a cui la legava una complicità e un’intesa senza pari. Questa dimostrazione d’affetto piaceva molto a Livia, la inteneriva quasi, poiché non vi era abituata e, per quel poco che potesse ricordare, non le sembrava ci fosse mai stato nulla di simile nel rapporto tra i suoi genitori.
«Bene.» Il tono deciso di Rocco interruppe i saluti tra le due amiche. «Amuninni1» sussurrò, gettando la sigaretta per terra e calpestandola con vigore.
«Fumi? E da quando in qua?» lo riprese Livia.
«Eh… Da quando? Da tanto» rispose laconico assumendo un’aria sbruffona ma divertente.
«Andiamo, Carini non è qui dietro. Ma perché fa così freddo? Perché?» si chiese Andrea mentre saliva in macchina.
«Perché siamo a dicembre?» ironizzò la moglie, strizzandogli l’occhio.
«Sì, sì, scherza tu. Ma io non ci sono abituato.»
«Tu non sei abituato a vivere. Troppi anni in collegio ti hanno fatto male. Nei campi, all’aria dovevi stare.»
Se non fosse stato per qualche rara inflessione dialettale, nessuno avrebbe sospettato che Marianna e Andrea fossero siciliani. Avevano, infatti, un’aria diversa dagli altri ricchi amici di Livia; altera ma non fredda, elegante ma non scostante. Per la giovane contessa sembravano due divi di Hollywood, oppure due vagabondi di lusso, che non viaggiavano mai senza un’adeguata scorta di champagne.
«Andrea! T’ammovere2!» si intromise Rocco, stanco di aspettare.
La macchina partì alla volta di Carini, perdendosi ben presto nell’oscuro silenzio della notte, gelida come il cuore di un uomo che da troppi anni ha scelto di non amare più.
I minuti scivolarono veloci tra le risate e le chiacchiere dei quattro amici. Livia dimenticò per un po’ l’ombra dominante di suo padre, il conservatorio e l’università. Fuori dall’auto il vento freddo faceva muovere i rami degli alberi e la strada era illuminata soltanto dai fari dell’auto, che correva come se temesse di essere inghiottita dalle nubi che si stavano addensando nel cielo.
«Avete notato che strana atmosfera c’è, stasera?» Marianna guardò fuori dal finestrino e si strinse nella pelliccia.
«Hai ragione» rispose Livia rilassandosi e liberando, finalmente, il suo delicato accento palermitano. «È così buio.»
Rocco scrutò fuori dal finestrino, per nulla convinto. «Io niente vedo.»
«Voi uomini non avete la nostra stessa sensibilità.»
«Marià, ma che sensibilità e sensibilità? È notte, punto.»
«Il nostro Rocco non diventerà mai un poeta. Questo è certo» disse Marianna in tono tranquillo ma ironico, adagiandosi sullo schienale. «Livia, tu mi capisci, vero?»
Si voltò verso l’amica, che sorrise e rispose. «Non è una serata come tutte le altre… È come se l’oscurità portasse un triste presagio con sé.»
«Quello che ho pensato io!» Si volse verso il marito e aggiunse. «Andrea, sei strano anche tu stasera. Qualcosa non va, caro?»
«C’ha freddo» si intromise Rocco e tutti scoppiarono a ridere.
«Lo sanno pure i sassi che soffro il freddo. Comunque, vi siete fatte suggestionare dalla maledizione della Baronessa. Tutto qui.»
«Fimmine» intervenne di nuovo Rocco. Livia gli assestò una gomitata, ma non servì a fermare le sue risate.
«Calma, buoni» Andrea svoltò a destra e continuò la corsa. «È semplice: stiamo andando in un castello in cui una donna è morta ammazzata e voi vi siete fatte trasportare dalle emozioni.»
«Andrea! La Baronessa Laura è stata barbaramente uccisa dal marito e dal padre, perché amava un altro uomo» ribatté stizzita sua moglie.
«No, non andò così. La uccisero per una questione di eredità. Il delitto d’onore non c’entra nulla.»
«Invece si!» esclamò Livia. «Laura Lanza ebbe anche dei figli dal suo amante.»
«Vi sbagliate. Il fatto dei bastardi era risaputo da tutti.»
«Andrea, non chiamarli così. I figli non hanno colpa. Mai.» La voce e i lineamenti di Marianna si indurirono improvvisamente e, per qualche secondo, nell’auto scese il silenzio.
«Purtroppo, amica mia, sono le colpe dei genitori a ricadere sui figli.» Livia sospirò malinconica.
«L’ansia mi state facendo venire, l’ansia.» Rocco si accese un’altra sigaretta.
«Per fortuna siamo quasi arrivati.» Andrea parcheggiò in uno spiazzo proprio sotto al castello. Non gli sfuggì lo sguardo serio della moglie, che scese sbattendo la portiera. «Beh? E che ho fatto?» L’uomo alzò il sopracciglio, sorpreso.
Livia e Rocco scesero dalla macchina e il vento sferzò i loro volti, facendoli rabbrividire. Si guardarono perplessi; era la prima volta che assistevano a una discussione tra i loro amici, che per loro rappresentavano la coppia perfetta. Decisero, scambiandosi mute occhiate complici, di allontanarsi un po’, per lasciarli soli a chiarirsi.
Andrea raggiunse di corsa Marianna, le mise una mano sulla spalla e ripeté. «Perché fai così?»
«Il solito cinico, questo sei» rispose nervosa la ragazza.
«Ma io…» Andrea non riuscì a finire la frase, perché venne interrotto dalla voce profonda di un uomo che li chiamava da poco lontano.
«Eh picciotti! Qua è un’ora che aspetto, ah.»
Andrea gli si avvicinò tendendogli la mano, che l’altro gli strinse con vigore. «Ci scusi, abbiamo avuto un imprevisto.»
L’uomo lo squadrò dall’alto al basso e rispose. «Eh, ma in ritardo siete.»
Rocco e Andrea si scambiarono un’occhiata complice. Il custode del palazzo non doveva essere un tipo loquace e, a guardarlo meglio, anche il suo aspetto lasciava molto a desiderare.
«Davvero, siamo mortificati, signore. Ma ormai siamo qui, che vi costa farci entrare?» Andrea non riusciva a staccare gli occhi dalla maglietta grigia e sporca di calce del suo interlocutore.
«Eh, ma io rischio qua.» Una folata di vento gelido agitò i pochi e patetici capelli che sopravvivevano aggrappati a una testa a punta come quella di un uovo.
Rocco si avvicinò ad Andrea e, coprendosi la bocca con una mano mentre faceva finta di girarsi da un’altra parte, sussurrò a mezza bocca. «Il simpaticone, qui, domanda piccioli3.»
«Già fatto» rispose l’amico senza curarsi di non farsi vedere.
«Altri» soggiunse Rocco cominciando a fischiettare con noncuranza.
Andrea trattenne a stento l’irritazione crescente, mentre tirava fuori il portafoglio dalla tasca dei pantaloni. Il custode non si perse neppure un gesto e i suoi occhietti spenti brillarono di colpo di una insospettata avidità. Il giovane gli allungò una banconota tradendo il proprio nervosismo con un leggero tremolio della mano. Per fortuna, in quel momento, sia Livia che Marianna stavano passeggiando un po’ più in là, di spalle, chiacchierando fitto tra loro. Se avessero visto che stava corrompendo un pover’uomo e onesto lavoratore pur di consentire loro di divertirsi, sicuramente non avrebbero approvato e sarebbe stato costretto a riportarle immediatamente a casa.
«Eh, grazie a voscenza.» Il custode sorrise mostrando un paio di denti marci.
«Portateci al castello, ora.» I suoi occhi duri, ridotti a due fessure, non lasciavano scelta.
«Eh, certo che vi ci porto. Sennò che sto a fare io qua?»
«Cominciavo a chiedermelo, in effetti.» L’ironia di Andrea fece scoppiare Rocco in una risata così fragorosa da far voltare le due ragazze poco lontano.
Livia e Marianna si affrettarono dietro ai tre uomini, emozionate all’idea di visitare il famoso castello di Carini.
Nuvole scure avvolgevano la notte densa, adagiata sul paese. Livia sollevò la testa sull’immensa fortezza, assiso sul suo trono di pietre, come un misterioso e silenzioso re che osserva e domina dall’alto i sudditi, giusto e spietato insieme.
Il freddo le punse il volto, infilandosi tra i vestiti fino a pizzicarle la pelle. Una strana sensazione di disagio la prese allo stomaco e più saliva verso il castello, più si acuiva. Si fermò un attimo a riprendere fiato, ma nessuno si accorse di quel malessere. Subito dopo, con uno sforzo, proseguì facendo finta di nulla, per paura di apparire una guastafeste agli occhi degli amici.
«Che imponenza!» esclamò Marianna compiaciuta. «Magari potessi viverci. Sembra il castello di una principessa.» Livia non rispose, ma l’amica non si diede per vinta. «Non credi che sarebbe bello vivere qui?»
«Non saprei. È troppo grande per me.» Guardò di nuovo la maestosa dimora e sentì un improvviso peso sulla testa, come se una forza violenta la stesse schiacciando verso terra. Le mura alte parevano spiarla attraverso le loro finestre. Si voltò di scatto, verso il mare calmo e la città vacillò sotto i suoi occhi. Nausea e oppressione le gravavano sul petto e dovette fermarsi di nuovo.
«Ti senti male?» Marianna cercò di sorreggerla, mentre la gaiezza di poco prima lasciava spazio a un’espressione impaurita e sorpresa.
«No… Tutto bene.» Livia impallidì e serrò le palpebre.
«Chiamo gli altri. Non muoverti, mi raccomando.»
«No, no. Ferma. Resta qui» sospirò. «Mi sento già meglio.» Riaprì gli occhi e si aggrappò al braccio di Marianna.
«Sei sicura?»
«Sì, è stato un piccolo malessere. Un capogiro, ecco. Non avrò mangiato abbastanza.» Si mise una mano sulla testa, che iniziava a dolerle.
«Uff… Mi hai fatto prendere uno spavento!» Marianna riacquistò il sorriso e la sua aria vagamente snob.
«Scusa. Sai, forse non è stata una buona idea venire qui.»
«Ancora lì state?» sbraitò Rocco dall’ingresso del castello, tendendo le braccia come se volesse afferrare entrambe e tirarle a sé, purché si sbrigassero.
«Eccoci, eccoci!» disse Marianna in tono ostentatamente flemmatico. Poi, a bassa voce, soggiunse. «Quel Rocco! Sempre insolente.»
«E dai. È buono e simpatico» rispose l’altra, che ora sembrava essersi ripresa.
«Sarà…»
«Sì. L’aria insolente nasconde insicurezza» sorrise.
«Ma va! E da quando in qua sei diventata così saggia?» I suoi riccioli biondi oscillarono al vento, incantando Livia per quanto erano perfetti e sinuosi.
«Non è saggezza» si schermì. «Lo dice Teresa.»
«Ah! Mi pareva strano che fossi così esperta di uomini. Anzi, di Rocco.» Un sorriso malizioso scintillò nel buio.
Il volto della fanciulla avvampò.
«E non arrossire!» la pungolò mentre le dava una piccola gomitata. «Ci sta guardando.»
«Tu mi fai arrossire. E poi io e Rocco siamo solo amici, ecco.»
«Tu credi di risolvere tutto con un ecco. Principessina, quando ti deciderai a diventare una donna?» Inclinò la testa di lato, sollevando un sopracciglio con aria canzonatoria.
«Andiamo, che è tardi» la incalzò Livia.
«Ecco» trillò Marianna e tutte e due scoppiarono a ridere.
«Evviva, ce l’avete fatta.» Rocco si accese un’altra sigaretta.
«Eh, giovanotto, qui non si fuma» lo riprese il custode.
Il ragazzo si tolse la sigaretta dalla bocca e, continuando a fissare l’uomo, allungò il braccio davanti a sé, aprì il pollice e l’indice lentamente, quasi con solennità. Non appena il mozzicone toccò terra, lo schiacciò ben bene sotto la scarpa. «Contento?» disse marcando con affettazione la “e”.
«Sì. Grazie, eh.»
«Prego» rispose ironico mentre le antiche volte a sesto acuto dell’ingresso spiavano il loro passaggio.
«Tràsiti.» Il custode fece strada al gruppetto con una grossa candela bianca. Si avvicinò a un mobile di legno vecchio e consunto, tirandone fuori altre della stessa grandezza.
«A voi.»
1“Amuninni”, ovvero “andiamo”, dal verbo siciliano “iri”.
2“T’ammovere” cioè “ti devi muovere, sbrigati”.
3“Piccioli” vuol dire “soldi” in dialetto siciliano.
Lasciate in un commento le domande che volete porre a Francesca, saranno postate alla fine dell’evento in un’intervista!
A martedì prossimo!
The Bibliophile Girl
3 pensieri riguardo “Viaggio nella Palermo del 1950. Protagoniste: Livia e Laura – 3° tappa”